E’ percezione largamente diffusa e condivisa che in Italia il sistema di democrazia rappresentativa scelto dai padri costituenti nel 1947, che pure ha consentito di lasciare alle spalle la dittatura fascista garantendo un lunghissimo periodo di pace, di sviluppo economico, di progresso civile, di diffusione e consolidamento dei diritti civili, da alcuni decenni sia progressivamente scaduto, funzioni in maniera inefficiente, alimenti il malcontento di gran parte della popolazione, causando una sempre più crescente disaffezione politica, sfiducia nelle istituzioni – soprattutto nel sistema dei partiti – e una diffusa percezione di degrado e corruzione politica e di distacco dai cittadini. Sembra quasi che, salve le dovute eccezioni (tra le quali vi è per fortuna il quasi unanime apprezzamento nei confronti della Presidenza della Repubblica) il sistema politico italiano sia rappresentato solo dai termini “partitocrazia” e “tangentopoli”.
Semplificando al massimo, ci sono sostanzialmente due approcci: quello di chi cerca di risolvere il problema riformando le istituzioni e quello di chi propone “tout cour” il superamento della democrazia rappresentativa promuovendo una sorta di “democrazia diretta” che sarebbe oggi resa possibile dalle nuove tecnologie digitali.
Questo primo tema può essere oggetto di approfondimenti e discussioni ma, a me, pare evidente che il mito della “democrazia diretta” rappresenti un clamoroso inganno e una forma estremamente pericolosa di manipolazione del consenso e della volontà popolare. Mi pare del tutto evidente (e la cronaca degli ultimi mesi ne è, a mio parere, una evidente conferma) che l’attività di governo in un mondo globalizzato ed interconnesso come quello attuale richieda delle competenze e delle conoscenze che superano di gran lunga il livello medio di conoscenza dei singoli cittadini/elettori/partecipanti così come la complessità delle questioni non possa quasi mai essere semplificata in alternative binarie (SI/NO, mi piace/non mi piace, approvato/respinto), per non parlare poi del fatto che, a fronte di una propagandata partecipazione “dal basso” ci si ritrovi di fatto in balia di un ristrettissimo gruppo di persone, di coloro cioè che si trovano nelle condizioni di formulare i quesiti e di gestire le piattaforme informatiche dove esprimere/registrare il consenso o il dissenso (con tutti i problemi di attendibilità e di conflitto di interessi che sono già stati sperimentati). (vedi Note 1 e 2)
La soluzione deve quindi passare attraverso una riforma delle regole che consenta alle istituzioni di funzionare con maggior efficacia, di recuperare credibilità presso i cittadini, di legittimare il concetto di “rappresentatività” e di responsabilizzare eletti ed elettori.
Purtroppo – a tale proposito – le esperienze passate non sono particolarmente incoraggianti. Ho fatto un breve ripasso e ho visto che la prima volta in cui la riforma delle “regole” è stata inserita come punto qualificante del programma di governo risale al secondo governo presieduto da Giovanni Spadolini (1982) e al cosiddetto “decalogo” da lui proposto.
Vi è stato poi il periodo delle commissioni bicamerali che dovevano formulare una proposta organica di revisione costituzionale. La prima fu presieduta dal liberale Bozzi nel 1983-85; la seconda dalla coppia De Mita – Jotti nel 1993-94, la terza da Massimo D’Alema nel 1997: nessuna di queste riuscì a produrre un risultato concreto; clamoroso fu il fallimento della Commissione D’Alema quando Berlusconi ritirò improvvisamente e inaspettatamente il suo appoggio quando i lavori erano ormai praticamente conclusi.
Fallita la stagione delle commissioni bicamerali, c’è stato il periodo delle riforme costituzionali approvate a maggioranza con conseguente referendum confermativo.
Il primo referendum costituzionale si tenne il 07/10/2001 e ebbe ad oggetto la riforma costituzionale promossa del governo D’Alema (riforma parziale, incentrata soprattutto sul “Titolo quinto”, cioè sulla ripartizione di competenze tra Governo e Regioni). Andò a votare solo il 34,1% degli elettori (a conferma di quanto poco questo argomento fosse sentito) e la riforma venne approvata dal 64,2% dei votanti. E’ l’unica riforma che sia stata confermata ma, visti i risultati, forse sarebbe stato meglio che fosse stata respinta. Con tale riforma D’Alema sperava di togliere argomenti elettorali alla Lega, ma non ha ottenuto né quel risultato né quello di chiarire i rapporti tra stato centrale e autonomie regionali, che ancora sono oggetto di confronto e trattative. (Questo è il mio parere, naturalmente).
Vi fu poi la riforma costituzionale proposta da Berlusconi, il cui referendum si tenne il 25/06/2006, a cui partecipò il 52,3% degli elettori e che venne bocciata con il 61,32% di NO e poi quella di Renzi, il cui referendum si tenne il 4/12/2016, a cui partecipò il 65,47% degli elettori e che venne bocciata con il 59,12% di NO.
Evidentemente non è una buona idea cercare di cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza.
Nel frattempo ci sono state anche numerose modifiche alla legge elettorale.
La prima e più significativa è quella che si verificò a seguito del referendum proposto da Mariotto Segni il 09/06/1991, che ebbe ad oggetto il tema della preferenza unica ma che, in realtà (e per esplicita indicazione dei promotori) era volto a promuovere l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria a doppio turno. (In effetti quello sulla preferenza unica fu il solo quesito referendario ammesso dalla Corte Costituzionale, ma erano state raccolte firme sufficienti anche per altri due quesiti, uno relativo all’abrogazione della soglia del 65% per la nomina diretta dei senatori nei collegi uninominali e uno volto ad estendere il sistema maggioritario ai Comuni con più di 5.000 abitanti)
Nonostante la contrarietà dei maggiori partiti di Governo e l’esplicito invito di Craxi ad “andare al mare”, l’affluenza fu molto buona (62,50%) e il risultato plebiscitario (95,57% di SI). In quel periodo Mariotto Segni era decisamente in sintonia con gli italiani. In un primo momento l’effetto del referendum fu solo quello di abolire le preferenze multiple (meccanismo che comunque favoriva il voto di scambio, l’alterazione dei risultati elettorali e la diffusione di pratiche corruttive) e infatti le elezioni politiche del 5 aprile 1992 si tennero con la consueta legge proporzionale.
Con l’XI legislatura (segnata fin dall’inizio dallo scoppio di Tangentopoli e dagli omicidi di Falcone e Borsellino) i partiti si resero conto che l’umore del Paese stava cambiando e diedero il via ad alcune significative innovazioni.
Nel corso del 1993 si ebbe per prima l’approvazione delle Legge n. 81 del 25/03/93, che modificava in senso maggioritario il sistema di elezione dei sindaci in tutti i Comuni, introducendo – per i Comuni con più di 15.000 abitanti – il secondo turno di ballottaggio tra i due candidati più votati.
Successivamente, in data 18/04/1993, si tenne (assieme a svariati altri quesiti riguardanti, fra l’altro, il finanziamento pubblico dei partiti, l’abolizione di alcuni ministeri, la depenalizzazione dell’uso personale di droghe) il referendum sulla modifica della legge elettorale del Senato che vide un’elevata partecipazione (77,01%) e la larga vittoria dei SI (82,74%). (Nota 3) Per dare attuazione a tale referendum in data 04/08/1993 vennero approvata le Leggi n. 276 e 277 che modificavano il sistema elettorale sia della Camera che del Senato (sistema noto come Mattarellum)..
Come è noto in Italia sono ammessi solo i referendum abrogativi e quindi le intenzioni dei promotori non si traducono in un articolato di legge ma vengono “interpretati” dalle forze politiche e dal Parlamento chiamato a tradurre in norma di legge l’esito del referendum. Con il Mattarellum venne scelto un sistema a turno unico per cui veniva eletto il Parlamento il candidato che, in ogni collegio (sia per la Camera che per il Senato) avesse ottenuto più voti, indipendentemente dal fatto che la percentuale raggiunta rappresentasse la maggioranza assoluta dei votanti o solo la “maggior minoranza”. Inoltre venne introdotta una “quota proporzionale”, pari al 25% dei seggi, da attribuirsi, per la Camera, su base nazionale con liste bloccate e quota di sbarramento pari al 4%, e, per il Senato – che, a norma di Costituzione, va eletto a livello regionale e non nazionale – con il recupero proporzionale dei più votati attraverso il meccanismo di calcolo denominato “scorporo”.
La quota proporzionale, più che garantire un “diritto di tribuna” ai partiti minori (argomento “politicamente corretto” ma contraddetto dalla soglia di sbarramento del 4%) serviva per garantire ai principali leader di partito un “paracadute” che garantisse l’elezione al Parlamento anche in caso di sconfitta nel collegio uninominale.
L’avvento del Mattarellum portò a un radicale rinnovamento (o meglio rimescolamento) dei partiti politici, venne utilizzato per tre legislature (elezioni politiche del 1994, 1996 e 2001) e consentì, per la prima volta dal dopoguerra, una effettiva alternanza al governo. La presenza della quota proporzionale venne però considerata un tradimento da parte di Segni e Pannella che infatti promossero un terzo referendum per abolire tale quota. Il referendum si tenne il 18/04/1999 (durante il primo governo D’Alema) e fallì d’un soffio il raggiungimento del quorum (percentuale dei votanti pari al 49,6%) e quindi, nonostante i SI prevalessero nettamente (91,5%), il movimento di opinione per un compiuto sistema maggioritario accusò una battuta d’arresto irreparabile.
Se le intenzioni di Segni e Pannella erano state quelle di ripristinare il rapporto di fiducia tra elettori ed eletti, di contenere lo strapotere dei partiti e di mettere a punto delle regole neutrali che potessero andare bene a tutti e fossero durature nel tempo, le successive modifiche delle leggi elettorali furono invece espressamente concepite coll’unico scopo di danneggiare gli avversari e favorire la propria parte politica.
Quando sul finire del 2005 i sondaggi davano il Popolo della Libertà soccombente in netta misura contro l’Unione guidata da Romano Prodi, il Ministro per le Riforme Istituzionali del terzo Governo Berlusconi, Roberto Calderoli, fu il promotore della Legge n. 270 del 21/12/2005, ormai universalmente nota come “Porcellum”. Con tale legge si abolivano i collegi uninominali e si tornava a una attribuzione di seggi proporzionale, stravolta però da un ingentissimo “premio di maggioranza” che assicurava il 55% dei seggi alla lista (o alla coalizione) che avesse ottenuto più voti, indipendentemente dal raggiungimento di qualsivoglia quorum. Il tutto con un sistema di liste bloccate che impediva agli elettori di esprimere alcuna preferenza tra i candidati e portava alla costituzione di un Parlamento di “nominati” dove per poter essere eletti non era necessario possedere alcun requisito di competenza o di precedente esperienza amministrativa, ma solo quello di essere fedeli al capo partito. Infatti del “Mattarellum” conservava solo l’aspetto peggiore, vale a dire quello delle liste bloccate, ma non limitate alla quota del 25%, bensì applicate a tutti i seggi.
Si trattava di una legge che, oltre che contrastare palesemente l’indicazione popolare dei referendum del 1991/1993, presentava evidenti profili di incostituzionalità (e, almeno per me, è ancora incomprensibile come mai il Presidente Ciampi, persona peraltro integerrima e imparziale, l’abbia promulgata senza rinviarla alle Camere) dove, paradossalmente, l’unico esplicito richiamo alla Costituzione era rappresentato dal fatto che, per il Senato, il premio di maggioranza andava attribuito non su base nazionale ma su base regionale. Tale particolarità aveva la conseguenza di determinare automaticamente una ampia maggioranza alla Camera e una maggioranza traballante e incerta al Senato.
Tale Legge elettorale è stata utilizzata in tre occasioni (elezioni politiche del 2006, 2008 e 2013) fino a essere (finalmente!) dichiarata incostituzionale in data 04/12/13. Le motivazioni della incostituzionalità risiedevano nella mancanza di una soglia minima per l’attribuzione del premio di maggioranza e nella impossibilità per l’elettore di esprimere una preferenza.
La sentenza della corte Costituzionale avrebbe dato luogo a un sistema immediatamente applicativo (soprannominato “Consultellum”, che avrebbe significato il ripristino di un sistema totalmente proporzionale, con preferenza unica e con soglie di sbarramento che, secondo la gran parte delle forze politiche e degli osservatori, avrebbe reso estremamente improbabile la costituzione di maggioranze omogenee e avrebbe portato a una situazione di ingovernabilità.
La modifica elettorale fu uno dei principali punti del cosiddetto “Patto del Nazareno” tra Renzi e Berlusconi, che portò alla presentazione e successiva approvazione, in data 06/05/2015 della Legge n. 52 comunemente denominata “Italicum” che, nelle intenzioni di Matteo Renzi, avrebbe dovuto entrare in vigore dopo l’approvazione della riforma costituzionale da lui proposta, approvata dal parlamento in data 12/04/2016 ma clamorosamente bocciata dal referendum confermativo del 04/12/2016.
La caratteristica principale dell’Italicum era quella di regolamentare unicamente l’elezione della Camera dei Deputati, dandosi per scontato che – con l’approvazione della riforma Costituzionale – il Senato avrebbe avuto differenti competenze e non sarebbe più stato eletto a suffragio universale ma sarebbe stato composto da delegati regionali (elezione di secondo livello). Si trattava di un sistema proporzionale con soglia di sbarramento e premio di maggioranza. Gli aspetti caratterizzanti, volti a recepire le obiezioni di anticostituzionalità della Legge Calderoli, erano costituiti dalla indicazione di una soglia minima del 40% per l’attribuzione del premio di maggioranza e nell’introduzione di un secondo turno di ballottaggio, nel caso nessuna lista avesse ottenuto il 40%. Venivano confermate inoltre le liste bloccate ma si superava (o almeno si credeva di superare) l’obiezione relativa alla impossibilità di esprimere preferenze, mediante la costituzione di “minicollegi” elettorali, con limitato numero di seggi, tali – nelle intenzioni del legislatore – da stabilire comunque un rapporto diretto tra eletti ed elettori. Altra caratteristica delle legge era la possibilità di presentare candidature plurime (fino a un massimo di 11 collegi), lasciando poi all’eletto la possibilità di scegliere discrezionalmente il collegio di elezione.
Per alcuni mesi l’iter di approvazione sia della riforma costituzionale che della legge elettorale procedettero tranquillamente ma poi, con l’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica (decisa da Renzi senza consultare Berlusconi) il Patto del Nazareno si ruppe e il Governo dovette ricorrere frequentemente a voti di fiducia per poter giungere alla approvazione definitiva di questi provvedimenti, ricorrendo sempre più spesso a soluzioni pasticciate e prive del necessario consenso.
Subito dopo l’approvazione dell’Italicum vennero avanzate numerose questioni di incostituzionalità che la Corte Costituzionale decise di affrontare solo dopo la celebrazione del referendum confermativo che portò alla bocciatura della riforma costituzionale. In data 16/02/17 alcune questioni di incostituzionalità vennero accolte, in particolare vennero dichiarati incostituzionali il turno di ballottaggio e la possibilità del candidato eventualmente eletto in più collegi di optare discrezionalmente per un determinato collegio.
A questo proposito vorrei rilevare come l’aver deciso di attendere il risultato del referendum sulla riforma costituzionale sia stata una decisione tecnicamente molto opportuna: infatti se con la costituzione attualmente vigente il ricorso a un turno di ballottaggio per l’attribuzione di un premio di maggioranza relativo alla sola Camera dei Deputati risulti illogico in un sistema a bipartitismo perfetto, tale obiezione non sarebbe più stata significativa se la riforma costituzionale fosse stata approvata e il Senato fosse stato privato del potere di esprimere la fiducia al Governo. Per quanto riguarda la seconda obiezione di incostituzionalità, quella relativa alla discrezionalità da parte degli eletti nel scegliere il collegio di elezione, è interessante rilevare come essa stabilisca il principio che l’elettore ha diritto di scegliere i propri rappresentanti, non l’eletto quello di scegliersi i propri elettori.
Come si sa l’Italicum non venne mai utilizzato e in data 03/11/77 venne approvata la Legge n. 165, comunemente nota come Rosatellum, che è quella che ha determinato, con le elezioni del 04/03/2018 la composizione attuale del Parlamento. Se l’Italicum era stato voluto da Renzi nella convinzione che si trattasse di una Legge “su misura” per garantirsi la piena governabilità nella legislature successive, il Rosatellum è stato concepito soprattutto nell’ottica di non fare vincere nessuno da solo.
La caratteristica del Rosatellum è quella di essere un sistema misto, per un terzo maggioritario (a turno unico) e per due terzi proporzionale (con soglie di sbarramento – distinte tra liste singole e coalizioni – senza premi di maggioranza e con liste bloccate senza possibilità di esprimere preferenze). Anche col Rosatellum sono previste candidature plurime, nel senso che è possibile candidarsi sia in un collegio uninominale sia in una o più circoscrizioni proporzionali.
Dopo la sua prima applicazione si può ben dire che il Rosatellum ha ottenuto lo scopo che si era prefisso: nessun partito ha ottenuto un numero di seggi tale da consentirgli di governare da solo; il risultato è stato una delle crisi più lunghe della storia della Repubblica (quasi tre mesi tra data delle elezioni e giuramento del primo esecutivo) e la formazione dell’alleanza più incongrua e disomogenea mai realizzata.
Mi scuso per l’excursus forse un po’ troppo lungo e noioso, ma mi sembrava opportuno fare mente locale alle varie modifiche che si sono succedute per poter cercare di capire perché nessuna di queste abbia ottenuto il risultato di riavvicinare i cittadini alle istituzioni e ripristinare il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori, anzi abbiano ottenuto esattamente il risultato opposto.
A mio parere tutte le riforme elettorali sperimentate negli ultimi decenni hanno avuto in comune un obiettivo dichiarato (assicurare la governabilità!, Presidente del Consiglio scelto direttamente dal popolo!, sapere la sera delle elezioni chi ci governerà!) e un obiettivo non dichiarato (non delegare ai cittadini la scelta dei candidati ma mantenerla sotto il rigido controllo degli apparati di partito).
Secondo me le soluzioni si sono rivelate inefficienti perché non è stata messa a fuoco correttamente la questione: il problema dell’Italia non è assicurare la governabilità, cioè assicurare a una determinata lista (o coalizione) una adeguata maggioranza in parlamento anche se espressione di una, sia pur consistente, minoranza. Il problema vero è il progressivo e apparentemente inarrestabile scadimento della qualità dei nostri rappresentanti. Il vero problema è il criterio della selezione della classe dirigente. Solo una classe dirigente di alto livello qualitativo, con competenze ed esperienze adeguate, che deve la sua nomina al rapporto diretto con l’elettore, che solo in base alla valutazione del proprio impegno e dei propri risultati può ottenere o meno la riconferma può portare a un recupero del rapporto fiduciario essenziale per il buon funzionamento di una democrazia rappresentativa. (Nota 4).
Sulla base di questo convincimento sono convito che un contributo essenziale al ripristino di questa fiducia e, di conseguenza, alla positiva risoluzione della maggior parte dei problemi che ci affliggono, consista nella adozione di un sistema elettorale maggioritario a doppio turno.
Come dovrebbe funzionare?
A mio parere il sistema elettorale deve essere il più semplice e lineare possibile, in modo da poter essere accettato da tutte le parti in causa e durare il più a lungo possibile. Non deve essere concepito in modo tale da rispecchiare una situazione contingente ma essere assunto come regola base che, proprio grazie alla sua costanza nel tempo, finisca per plasmare a sua immagine e somiglianza il sistema politico e partitico. Non a caso i Paesi con più lunga tradizione democratica, cambiano assai raramente il loro sistema elettorale, si vedano i casi degli Stati Uniti, della Francia, della Germania, del Regno Unito.
Secondo il modello che ho in mente io, il Paese dovrebbe essere suddiviso in tanti collegi quanti sono i seggi disponibili: al momento 630 per la Camera e 315 per il Senato, ma il concetto non cambierebbe nemmeno se con legge di riforma costituzionale si modificasse il numero dei parlamentari (al momento è stata approvata in prima lettura una proposta di riforma costituzionale che porterebbe il numero dei deputati a 400 e quello dei senatori a 200) o se si decidesse di eliminare il bicameralismo a favore di una sola camera. Ogni collegio dovrebbe avere un numero di elettori pressoché uguale (attualmente gli elettori italiani sono 51 milioni per cui si avrebbe un deputato ogni 70/90.000 elettori e un senatore ogni 140/180.000 elettori). I collegi dovrebbero avere continuità territoriale, preferibilmente all’interno di un’unica provincia. Piccole eccezioni possono essere previste, come già avviene adesso, per determinate realtà territoriali (un senatore alla Val d’Aosta) o linguistiche (provincia di Bolzano); ogni 10 anni sulla base degli aggiornamenti del numero dei residenti i perimetri dei collegi possono essere rivisti per tener conto dell’aumento/diminuzione degli aventi diritto al voto in modo da mantenere una distribuzione sostanzialmente omogenea.
Ogni collegio elegge un unico rappresentante: se un qualche candidato raggiunge al primo turno il 50% + 1 dei voti validamente espressi (al netto di astensioni, schede bianche o nulle) viene eletto; in caso contrario si ricorre a un secondo turno di ballottaggio tra i due candidati che hanno ricevuto il maggior numero di voti. Così: semplicemente, senza eccezioni. Non è previsto che accedano al ballottaggio più di due candidati (ad esempio tutti quelli che superano la soglia del 12,5%, come avviene in Francia). Non sono ammessi accordi di desistenza (se il secondo candidato più votato rinuncia, viene eletto il primo, non è che viene ammesso al ballottaggio il terzo). Al secondo turno vince il candidato che prende più voti quindi, automaticamente, più del 50% dei voti validamente espressi al secondo turno (senza alcun quorum minimo di partecipazione).
Ogni candidato può rappresentare un singolo partito o una coalizione di più partiti: l’importante è che ogni coalizione sia valida per ogni singolo collegio in cui venga registrata; sono prevedibili coalizioni a livello nazionale, ma sono irrilevanti in quanto – con il sistema maggioritario uninominale – ogni collegio elegge uno e un solo rappresentante, non vi sono resti, quozienti, scorpori, liste civetta o altro.
Naturalmente bisogna regolamentare la presentazione delle liste e dei simboli elettorali: anche qui la normativa dovrebbe essere la più semplice possibile. Si potrebbe, ad esempio, stabilire che i partiti che dispongono di un numero di deputati sufficiente a costituire un gruppo parlamentare sono autorizzati a presentare i loro candidati in tutti i collegi senza dover ricorrere alla raccolta di firme. Il punto importante è che, in un sistema maggioritario uninominale, sia ammissibili anche candidature indipendenti, non legate a un partito nazionale ma espressione di realtà locali (tipo liste civiche) o addirittura liste “ad personam” stabilendo un requisito di raccolta firme non particolarmente oneroso (ad esempio 1.000 firme per ogni collegio). Siccome al secondo turno vengono ammessi comunque solo due candidati, il rischio che ci sia una proliferazione di liste non è particolarmente significativo, viceversa in questo modo ogni personalità che abbia un significativo radicamento territoriale, la cui competenza sia riconosciuta e che goda di pubblica stima avrebbe diritto di presentarsi anche senza essere necessariamente iscritto a un partito.
Così facendo ogni parlamentare rappresenterebbe un determinato territorio e sarebbe direttamente responsabile nei confronti dei suoi elettori, dai quali unicamente dipenderebbe la rielezione o meno al termine del mandato: in questo modo i partiti perderebbero ogni forma di ricatto nei confronti di eventuali dissenzienti, in quanto il parlamentare avrebbe sempre la possibilità di ripresentarsi al giudizio dei propri elettori.
E’ chiaro che in un sistema di questo tipo non ha senso parlare di quote di genere: se ogni collegio elegge un solo rappresentante, non vi sono meccanismi per garantire un numero minimo di eletti di genere femminile; il sistema delle quote peraltro è estremamente discutibile: perché non prevedere una quota anche di omosessuali, o di pensionati, o di contadini, o di commercianti, o di musulmani o di vegani? Qualsiasi sistema di quote porta a far sì che l’eletto si consideri rappresentare di un gruppo particolare, mentre così l’eletto rappresenterebbe tutto l’elettorato di un determinato collegio, essendone l’unico rappresentante.
A mio parere non ha nemmeno senso fissare un numero massimo di mandati, anzi è apprezzabile che ogni parlamentare abbia la possibilità – al termine della legislatura – di presentarsi al giudizio dei suoi elettori per verificare l’apprezzamento del suo operato. Naturalmente ogni partito avrebbe la possibilità di fissare regole interne, incluso un limite al numero dei mandati, ma questo non impedirebbe al parlamentare uscente di ripresentarsi comunque con una lista “ad personam”. (Nota 5)
C’è poi da considerare la questione dei parlamentari eletti all’esterno: si potrebbe estendere anche ad essi il concetto di collegio uninominale (anche se la vastità delle circoscrizioni snaturerebbe il significato del rapporto diretto tra eletto ed elettori) oppure fare una limitata eccezione considerando un turno unico e la possibilità di esprimere preferenze. A mio parere – però – l’approvazione di una nuova legge elettorale maggioritaria a doppio turno sarebbe l’occasione giusta per ripristinare il testo originario della Costituzione, abrogando le modifiche introdotte dalla cosiddetta “legge “Tremaglia” i cui risultati sono stati alquanto discutibili. Sempre a mio parere il problema di consentire il voto agli italiani all’estero è stato impostato e risolto in modo sbagliato: invece di dare a tutti i cittadini italiani che si trovano all’estero, sia a quelli iscritti all’Aire (e quindi permanentemente residenti all’estero), sia a quelli solo temporaneamente lontani dall’Italia, per motivi di studio (ad es. studenti Erasmus) lavoro (marittimi, militari in missione di pace, stagisti, lavoratori con impieghi a tempo determinato) o anche solo turismo o manifestazione sportive, la possibilità di esprimere un voto per corrispondenza presso il collegio elettorale dove sono stabilmente residenti o da cui (nel caso degli iscritti all’Aire) sono originari, si è scelto di dare rappresentanza a figli e nipoti di emigranti che ormai non hanno più alcun legame con la madrepatria, non ne ricevono che in maniera marginale i servizi essenziali e soprattutto – non pagando le tasse – sono del tutto indifferenti alle scelte economiche del governo italiano.
Differenze tra maggioritario a un turno e a doppio turno
Non si tratta di una questione marginale, di un dettaglio tecnico: la differenza tra i due sistemi è concettuale. Con il sistema maggioritario a un turno si favorisce la radicalizzazione e la contrapposizione tra le parti sociali. Vince il gruppo più forte, la “maggiore minoranza”; quasi sempre l’eletto rappresenta solo una parte dell’elettorato. Per ottenere più voti conviene demonizzare gli avversari, screditarli, evidenziare le differenze programmatiche e le contrapposizioni.
Con il sistema maggioritario a doppio turno i candidati ammessi al ballottaggio per poter vincere non possono limitarsi a fare appello alla propria parte politica, devono ricercare anche i voti di quegli elettori il cui partito è rimasto escluso dal ballottaggio: pertanto devono essere in grado di essere apprezzati e stimati anche da chi non si rispecchia pienamente in loro, devono essere aperti al dialogo, inclusivi, moderati nel senso migliore del termine.
Con il sistema maggioritario a un turno si vota sostanzialmente un partito, il nome del candidato è irrilevante; l’importante è che l’elettorato lo identifichi come il rappresentante in loco del leader nazionale del partito. Con il sistema maggioritario a doppio turno, invece, si vota espressamente una persona.
Con il maggioritario a un turno l’eletto rappresenta una parte, vincola il suo voto al partito che lo ha espresso, si può ipotizzare il vincolo di mandato. Con il doppio turno l’eletto rappresenta tutto il territorio di cui è l’espressione, ed è libero di espletare il proprio mandato con la massima libertà e libero – almeno formalmente – da qualsiasi condizionamento.
Con il maggioritario a un turno l’eletto, in un sistema molto frazionato come spesso accade in Italia, può rappresentare anche una percentuale molto bassa di votanti (anche inferiore al 20/25%): ciò si traduce in una sostanziale delegittimazione a parlare a nome di tutto il collegio; con il sistema a doppio turno l’eletto (in quanto espressione della maggioranza assoluta di votanti) è pienamente legittimato a rappresentare a rappresentare tutti gli elettori di un determinato territorio.
Perché il maggioritario a doppio turno è pienamente costituzionale
L’articolo 67 della Costituzione recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Abbiamo già visto come il legame che si instaura tra eletto ed elettori nel caso di elezione a doppio turno sia molto più inclusivo che nel caso del turno unico e quindi il parlamentare possa legittimamente rappresentare la Nazione nella sua interezza e rifiutare ogni vincolo di mandato. Nel caso invece del turno unico, ma a maggior ragione nel caso di sistemi elettorali proporzionali, il parlamentare risulta rappresentare una parte specifica e infatti sono sempre più frequenti – soprattutto da parte del Movimento 5 stelle – le richieste di introduzione del vincolo di mandato.
Ma c’è di più. Negli ultimi trenta anni la propaganda politica ha insistito sul fatto che con le elezioni politiche si elegge un GOVERNO e che il miglior sistema elettorale sarebbe quello che consente di “conoscere già la sera delle elezioni” il nome del Presidente del Consiglio e che un significativo premio di maggioranza è il miglior sistema per assicurare governabilità è stabilità all’esecutivo.
Peccato che la Costituzione preveda che l’Italia sia una Repubblica parlamentare, basata sulla separazione dei poteri e dia ampio risalto alle funzioni di equilibrio, controllo e garanzia svolte dalla Presidenza della Repubblica.
Bisogna ricordare che con il voto politico si elegge il Parlamento e che questo è chiamato a esercitare il potere legislativo, mentre il Governo viene nominato dal Presidente della Repubblica, entra immediatamente in carica e solo successivamente deve ottenere la fiducia delle due camere. Secondo la Costituzione le funzioni legislativa ed esecutiva sono ben distinte e il Parlamento dovrebbe limitarsi a concedere o revocare la fiducia al Governo.
Secondo l’articolo 77 solo in straordinari casi di necessità e di urgenza, il Governo adotta provvedimenti provvisori con forza di legge (i cosiddetti Decretii Legge) e deve il giorno stesso presentarli alle Camere per la conversione in legge.
Penso sia sotto gli occhi di tutti come questo articolo della Costituzione venga costantemente ignorato e stravolto. Ormai la conversione in legge dei decreti rappresenta la maggior parte dell’attività del Parlamento, non certo la sua attività straordinaria; la necessità e l’urgenza vengono richiamate in premessa senza alcuna argomentazione e in maniera assolutamente fittizia, prova ne sia che alcuni Decreti Legge “urgenti” sono stati pubblicati dopo gestazione lunga alcuni mesi, magari decidendo di rinviarne la presentazione a dopo lo svolgimento di una specifica tornata elettorale; si ricorre sempre più frequentemente alla approvazione “salvo intese” così che il testo viene presentato alla firma del Presidente della Repubblica anche alcune settimane dopo la delibera di approvazione del Consiglio dei Ministri, quanto la costituzione ne prevedrebbe la presentazione alle Camere il giorno stesso. Infine la prassi è di emanare Decreti Legge che richiedono l’emanazione di successivi decreti attuativi, quando invece – secondo la Costituzione – tali atti dovrebbero essere immediatamente applicabili ed eseguibili.
Tutte queste problematiche sono riconducibili a un’unica questione: la marginalizzazione del Parlamento e la mancata separazione tra potere esecutivo e legislativo. E’ sotto gli occhi di tutti che ormai l’unico compito dei Parlamentari è quello di fornire i numeri per ratificare decisioni prese in altre sedi. Se scopo delle elezioni politiche non è quello di eleggere legislatori preparati e competenti, ma garantire i voti per la ratifica delle proposte del Governo, allora è chiaro che non conta nulla la preparazione, la competenza, l’onestà intellettuale, l’esperienza amministrativa e lavorativa, dei singoli parlamentari, ma unicamente la loro fedeltà e obbedienza alle direttive dei leader partitici.
Questo è il risultato diretto delle liste bloccate e dei premi di maggioranza (che sanciscono il diritto di una minoranza di imporre le sue scelte “erga omnes”). Per combattere questa deriva è necessario ritornare allo spirito della Costituzione, alla centralità del Parlamento, al rispetto del ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica. Un sistema elettorale che consenta ai cittadini di scegliere delle PERSONE e che queste siano LEGITTIMATE dal fatto di rappresentare la maggioranza ASSOLUTA dei propri elettori, mi sembra sia la principale, se non l’unica riforma decisiva, riforma che – tra l’altro – potrebbe essere attuata a costo zero.
La questione della governabilità
Come ho detto prima, negli ultimi trent’anni è stata fatta passare l’idea che il principale problema del sistema politico fosse quello di garantire la governabilità assegnando, con specifiche forzature, un premio di maggioranza al raggruppamento che conquistasse più voti. E’ evidente che il sistema maggioritario a doppio turno non contiene alcun meccanismo che garantisca automaticamente una maggioranza omogenea e autosufficiente. Secondo me però questo è un falso problema. Intanto va rilevato che con i meccanismi volti ad assicurare la governabilità, ad esempio il “Porcellum”, tale risultato non veniva ottenuto: infatti, pur di prevalere anche di un solo voto sul raggruppamento avversario, venivano a costituirsi delle coalizioni “omnibus” quali l’Unione di Romano Prodi (che spaziava da Mastella a Turigliatto) o il Popolo delle Libertà, che alla fine comprendeva il Partito Pensionanti, gli Animalisti e una infinità di sigle minori) dove il potere di ricatto e interdizione delle formazioni minori era tanto maggiore quanto minore era stato il distacco tra i due raggruppamenti contrapposti, un precedente che pochi credo rimpiangeranno.
Va invece rilevato, dall’esperienza storica dell’applicazione del doppio turno, che vi è un effetto moltiplicatore per cui il partito che maggiormente interpreta la volontà dell’elettorato, seppure in seconda battuta, può contare su un numero di parlamentari molto maggiore della propria consistenza di voti in termini percentuali e questo assicura, sia pur non automaticamente, il costituirsi di maggioranze omogenee. Va poi considerata la maggiore libertà, rispetto agli ordini di scuderia, di cui godono gli eletti con il sistema a doppio turno e quindi la possibilità che ciascuno di essi, consapevole delle responsabilità derivanti dal mandato elettorale, possa consapevolmente accordare o revocare la fiducia al Governo.
Alcuni esempi in altri paesi
Mi sembra interessante analizzare il sistema elettorale in vigore in tre dei Paesi di più lunga tradizione democratica dove è in vigore il principio maggioritario: Francia, USA e Gran Bretagna.
La Francia è il modello specifico di riferimento del maggioritario a doppio turno, con la sola significativa differenza che al secondo turno sono ammessi tutti i candidati che superano la soglia del 12,5% degli aventi diritto al voto. Come è noto la Francia è una repubblica semipresidenziale, ma questo ha dato dei problemi di coabitazione, peraltro sempre gestiti in modo molto pragmatico, quando la maggioranza che aveva portato all’elezione del Presidente della Repubblica non coincideva con quella dell’Assemblea Nazionale (che attribuisce la fiducia al Capo del Governo), non problemi di legittimazione del risultato elettorale. Infatti il sistema maggioritario a doppio turno ha sempre dato piena legittimità, sia al Presidente della Repubblica che all’Assemblea Nazionale ed è andato bene lungo un notevole arco di tempo che ha visto la nascita, la scomparsa o la trasformazione di numerosi partiti (per ultimi il Rassemblement National e La République En Marche) a riprova del fatto che un sistema elettorale valido può accompagnare importanti evoluzioni della realtà politica di un Paese. L’altro aspetto significativo è che, senza il principio del doppio turno, Marine Le Pen sarebbe da tempo al Governo in Francia.
Anche negli Stati Uniti vige il sistema maggioritario che porta a un forte legame di ogni rappresentante nei confronti del proprio collegio elettorale da cui trae legittimazione che garantisce autonomia di giudizio e libertà di scelta nelle votazioni più importanti (in USA sono frequentissimi i casi di Deputati e Senatori che votano secondo coscienza e in disaccordo con la linea ufficiale del partito). Il fatto che la legge elettorale sia rimasta sostanzialmente invariata per oltre due secoli ha portato a un sistema sostanzialmente bipartitico. In America non c’è il secondo turno di ballottaggio ma va ricordato che tutte le candidature (per la Presidenza, il Senato, la Camera dei Rappresentanti e anche per la carica di Governatore), vengono stabilite con il metodo delle primarie, quindi in realtà vi è un doppio livello di votazione e infatti, nel percorso delle primarie, viene sempre sollevata la questione di quale candidato è più idoneo a catturare i voti anche dei simpatizzanti dell’altro partito.
In Gran Bretagna vige invece da sempre il sistema del maggioritario secco, a un turno, secondo il principio “first-past-the-post”. Questo sistema è tipico della tradizione inglese e fa sì che venga il principio che per governare non sia necessaria la maggioranza dei consensi ma solo la “maggiore minoranza”. A questo proposito vorrei far notare che il sistema politico britannico è basato sulla contrapposizione governo-opposizione, non sul dialogo, sulla mediazione, sulla condivisione delle scelte, sulla possibilità che su determinati provvedimenti vengano a costituirsi delle “maggioranze variabili”. Questa contrapposizione è plasticamente rappresentata dalla forma dell’aula di Westminster, che è rettangolare e dove i banchi di governo e opposizione sono paralleli e si fronteggiano fisicamente. Nella maggioranza degli altri parlamenti (in Italia, in Francia, ma anche al Campidoglio statunitense e al parlamento Europeo di Bruxelles/Strasburgo) l’aula ha la forma di un anfiteatro, dove i vari partiti scelgono la loro collocazione variando tra l’estrema destra e l’estrema sinistra (i concetti di destra e sinistra risalgono infatti alla conformazione dell’Assemblea Nazionale ai tempi della Rivoluzione Francese) ed è dal dibattito e dal confronto tra le parti che si generano, o si dovrebbero generare, di volta in volta le maggioranze necessarie all’approvazione delle delibere.
Conclusioni
A mio avviso il sistema maggioritario a doppio turno sarebbe il più adatto nella situazione italiana e potrebbe contribuire a risolvere molti dei problemi di efficienza ed efficacia del sistema politico e a invertire il senso di crescente distacco e disaffezione dei cittadini nei confronti della politica in generale e dei partiti in particolare.
Non si tratta di una idea nuova, è esattamente il modello che aveva proposto Mariotto Segni circa trenta anni fa e che tante speranze aveva suscitato in moltissimi italiani. Quel tentativo non andò a buon fine soprattutto per la resistenza dei partiti a rinunciare al controllo delle candidature. I numerosi cambiamenti e accadimenti di politica interna e internazionale che hanno nel frattempo avuto luogo, non solo non hanno modificato le ragioni che portavano alla preferenza del sistema a doppio turno ma anzi rendono tale soluzione ancora più necessaria e indifferibile. Non sarà facile sensibilizzare nuovamente l’opinione pubblica in tal senso, visto che molti altri problemi sono percepiti come più urgenti o più importanti (alto debito pubblico, ristagno dell’economia, elevata disoccupazione, immigrazione incontrollata, eccetera) ma è solo dotandoci di regole imparziali ed efficaci che potremo sperare di ricostituire una classe dirigente degna di questo nome e – di conseguenza – implementare tutte quelle azioni e riforme che sono necessarie per il rilancio economico e sociale del nostro Paese e per far sì che possa essere di nuovo rispettato e ascoltato in Europa.
Sarà un piacere approfondire e discutere su queste mie considerazioni fatte a ruota libera
Augusto Burtulo
Nota 1
A questo proposito mi pare illuminante una storiella ebraica che ho sentito raccontare da Moni Ovadia.
Ci sono due ragazzi ebrei intenti a studiare la Torah. Dopo un po’ il primo si alza, va dal rabbino e gli chiede: “Rabbino, posso fumare mentre leggo la Torah?” Il rabbino lo fulmina con lo sguardo e dice: ”Ma cos’hai nel cervello? Ma come puoi mancare di rispetto in questo modo al nostro libro sacro? Va’ via e non farti più vedere!”. Dopo un po’, il secondo studente va dal rabbino e gli chiede: “Rabbino, quando fumo, posso leggere la Torah?” Il rabbino sorride compiaciuto e dice “Ma certo, carissimo, ogni momento della giornata è buono per leggere la Torah!”
Morale: la risposta dipende dal modo in cui viene formulata la domanda.
Nota 2
Per approfondire il tema di come le tecnologie digitali tendano a favorire il manifestarsi di opinioni superficiali, il prevalere di reazioni emotive e non razionali, il disconoscimento della competenza e della preparazione, suggerisco la lettura del libro di Alessandro Baricco “The Game”, Einaudi editore.
Nota 3
Il quesito relativo alla modifica in senso maggioritario della legge elettorale dal Senato, era stato bocciato dalla Corte Costituzionale nel 1990 con la motivazione dell’impossibilità di lasciare un organo elettivo privo di una legge funzionante per il suo rinnovo, e pertanto venne riformulato in modo tale da evitare tale obiezione, grazie anche al cosiddetto “Emendamento Calderisi” approvato nel frattempo (atto Senato n. 1776).
Nota 4
Oggi è ampiamente diffusa l’abitudine di chiamare “casta” la classe dirigente, con particolare riferimento agli uomini politici che esercitano pubbliche funzioni di responsabilità. Io preferirei parlare di “élite” e vorrei far notare come tale parola derivi dal verbo “eligere” inteso come scegliere. Non si fa parte di una élite per nascita o per censo ma perché, grazie alle proprie competenze e alle proprie qualità, morali e intellettuali, si è stati scelti per ricoprire un determinato incarico. Analogamente, quando un sistema elettorale è costituito da liste bloccate, non si può parlare di “elezione” in quanto al cittadino non viene data alcuna possibilità di scegliere la persona da cui farsi rappresentare.
Nota 5
Va sottolineata la differenza tra l’elezione di un parlamentare – che è membro di un organo collegiale – e l’elezione diretta del Sindaco che, per quanto debba avere la fiducia del Consiglio Comunale e venga assistito dagli assessori, ha – con l’attuale normativa – poteri e responsabilità caratteristiche di un organo monocratico: in questo caso l’attuale limitazione a non più di due mandati consecutivi è logica ed opportuna.