Il 27 dicembre 1947 venne approvata la Carta Costituzionale della Repubblica Italiana, basata sulla tradizionale separazione dei tre Poteri; Legislativo, affidato al Parlamento, Esecutivo, affidato al Governo, e Giudiziario, affidato alla Magistratura. Per un corretto funzionamento delle istituzioni la Costituzione prevede un bilanciamento dei tre poteri e tutta una serie di istituzioni di controllo e garanzia, le più importanti delle quali sono il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale.
E’ significativo notare come solo il Parlamento venga eletto direttamente dai cittadini, mentre il Governo riceve una legittimazione indiretta in quanto viene nominato dal Presidente della Repubblica (che incarica direttamente il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, nomina i singoli ministri) ma assume i pieni poteri solo dopo aver ricevuto la fiducia di entrambi i rami del Parlamento. Parlamento e Governo attengono alla sfera della politica (e quindi all’attività dei Partiti politici) mentre la Magistratura è indipendente, ad essa si accede unicamente per concorso pubblico, ed è dotata di un organo di autogoverno (il Consiglio Superiore della Magistratura).
Il fatto che il Parlamento sia l’unico potere ad essere eletto direttamente dai cittadini fa sì che esso sia l’istituzione più rappresentativa, alla quale il Governo è subordinato (in quanto perde i propri poteri in mancanza di fiducia delle camere). Non a caso l’Italia è una Repubblica Democratica Parlamentare e non una Repubblica Presidenziale.
Pur avendo assicurato un lunghissimo periodo di pace e prosperità, nei suoi oltre settanta anni di vita la democrazia rappresentativa in Italia ha evidenziato alcune criticità, le più evidenti delle quali sono la breve durata dei Governi (in media poco più di 13 mesi) e la progressiva supremazia dei Partiti sul Parlamento (la cosiddetta degenerazione partitocratica). La crisi di rappresentanza è evidenziata dal crescente discredito della classe politica agli occhi di cittadini (culminata nello scandalo di Tangentopoli) e dal conseguente aumento dell’astensionismo alle elezioni (nazionali, europee ed amministrative).
A parere di chi scrive tra le cause principali della perdita di rappresentanza vi è da un lato il tramonto dei partiti storici basati su una forte componente ideologica e la loro sostituzione con partiti effimeri guidati da leader carismatici, più attenti al consenso immediato che alle visioni di lungo periodo, dall’altro lo scadimento qualitativo degli eletti e l’impossibilità per l’elettore di scegliere direttamente il proprio rappresentante, fenomeno che è principalmente conseguenza delle liste bloccate previste dal cosiddetto “Porcellum” (che infatti venne dichiarato incostituzionale) ma purtroppo presenti anche nell’”Italicum” e nel “Rosatellum”.
Da oltre tre decenni si dibatte sull’opportunità di un ritocco alla Costituzione (non nei suoi principi generali ma solo nella seconda parte ”Ordinamento della Repubblica”); tre Commissioni bicamerali (presiedute rispettivamente da Aldo Bozzi, Ciriaco De Mita e Nilde Jotti e infine da Massimo D’Alema) non riuscirono a portare efficacemente a termine i loro lavori; le riforme proposte a colpi di maggioranza prima da Silvio Berlusconi e poi da Matteo Renzi sono state sonoramente battute in occasione dei referendum confermativi. (non cito – perché poco rilevante – la riforma D’Alema, che tocca solo il Titolo Quinto della Seconda Parte, e che è stata sì confermata dal referendum nel 2001, ma con una partecipazione di appena il 34,1% degli elettori). Entrambe le riforme avevano come obiettivo quello di rafforzare il Governo, rispetto al Parlamento, prevedendo – seppur con modalità differenti – l’elezione diretta del Governo da parte dei cittadini.
Siccome entrambe sono state bocciate dal referendum confermativo se ne dovrebbe dedurre che gli Italiani non gradiscono l’elezione diretta del Capo del Governo (temendo che la legittimazione popolare equivalga a conferire allo stesso “pieni poteri”) e che preferiscono la modalità della democrazia rappresentativa parlamentare. Se però questa soluzione non è gradita, è comunque necessario individuare degli accorgimenti che possano ridurre i problemi di cui sopra: in una parola è necessario mettere a punto una legge elettorale che, secondo i dettami della Costituzione, assicuri rappresentatività e governabilità e quindi consenta di recuperare il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori.
L’attuale Parlamento, su iniziativa determinante del Movimento Cinque Stelle che ne ha fatto una bandiera identitaria, ha approvato la Legge Costituzionale n. 240/19 che riduce di oltre un terzo (36,5% per l’esattezza) il numero dei parlamentari di entrambe le Camere. Tale Legge sarà oggetto di referendum confermativo il prossimo 20 e 21 settembre.
Data la larghissima maggioranza con cui tale legge è stata approvata in doppia lettura e in base ai sondaggi demoscopici che stimano la vittoria del SI, è probabile che tale legge verrà confermata.
La domanda che dobbiamo porci però è: tale legge assicurerà un miglior funzionamento del Parlamento e promuoverà una maggiore e più convinta partecipazione dei cittadini alla vita politica? E’ lecito dubitarne.
Secondo i promotori di tale legge, la riduzione del numero delle “poltrone” consentirà una significativa economia di bilancio e tale considerazione sembra essere di per sé autosufficiente. Cento milioni di Euro all’anno (di tanto si parla) non sono proprio spiccioli, ma sono una cifra assolutamente marginale (lo 0,007% della spesa pubblica), con cui non sarà possibile finanziare alcuna significativa riforma strutturale.
La realtà è che per il M5S la democrazia rappresentativa è solo un male minore rispetto all’ideale di una democrazia diretta, per loro i parlamentari sono dei semplici portavoce, più o meno intercambiabili, il cui compito è solo quello di assicurare i numeri per votare la fiducia al governo ed approvare i provvedimenti contenuti nel programma. Se il ruolo del parlamentare è solo quello di pigiare un bottone, è chiaro che gestire 600 parlamentari è più semplice ed economico che gestirne 945. Tanto più che le scelte politiche non vengono fatte in Parlamento, ma dai Leader del Movimento e dei partiti di volta in volta alleati, nel chiuso dei summit a palazzo Chigi. In tale ottica si capisce anche lo stupore nei confronti dei deputati o senatori che insistono a pensare con la propria testa, si invoca il vincolo di mandato e si stabilisce un limite di due legislature perché la competenza e l’esperienza sono un disvalore di cui liberarsi appena possibile.
Se invece si vuole che il Parlamento funzioni bene e che i cittadini si sentano rappresentati, si può anche accettare di ridurne il numero, ma solo a condizione che venga contestualmente varata una legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere direttamente il loro rappresentante e contemporaneamente di favorire l’elezione al Parlamento dei candidati che abbiano maggiore esperienza, maggior competenza, maggior rispettabilità.
Il compito principale del Parlamento non è quello di votare la fiducia al Governo: in una democrazia rappresentativa pienamente funzionante ciò dovrebbe avvenire solo una volta ogni cinque anni, più una volta all’anno l’approvazione della legge di bilancio (che, idealmente, dovrebbe essere inemendabile). Il resto del tempo dovrebbe essere dedicato all’elaborazione, discussione e approvazione delle Leggi, esercitando così quel potere legislativo che la Costituzione gli attribuisce, mentre il Governo dovrebbe “limitarsi” a governare (e scusate se è poco…) smettendola di legiferare al posto del Parlamento tramite l’abuso di Decreti Legge e Leggi Delega.
Il sistema elettorale che consente sia di selezionare i candidati migliori, sia di dare loro la massima legittimazione democratica esiste ed è molto semplice: maggioritario a doppio turno di collegio. In ogni collegio ogni partito nazionale (o lista civica locale) presenta un unico candidato: se nessun candidato raggiunge la maggioranza assoluta dei votanti dopo quindici giorni si ricorre al ballottaggio tra i due candidati più votati. In questa maniera ciascun eletto è pienamente legittimato a rappresentare per intero il proprio collegio perché eletto – se pure in seconda battuta – con la maggioranza assoluta. Questo porta ciascun partito a indicare come candidato la personalità che più possa essere stimata e gradita a una ampia fascia di elettorato, a prendere voti cioè anche oltre il proprio partito di riferimento. In questo modo si rafforza anche il rapporto con gli elettori, perché l’eletto deve rispondere a loro, non al segretario del partito, e solo dai cittadini può aspettarsi o meno la riconferma al termine del mandato.
Il maggioritario a doppio turno viene da quasi trent’anni usato per l’elezione del sindaco. E’ un sistema che funziona bene, che ha spinto molte personalità di livello a impegnarsi a livello locale, che rafforza il legame tra eletto ed elettore. Il motivo per cui tale sistema non è stato proposto a livello nazionale è che è sgradito ai leader di partito perché riduce il loro potere di selezione di candidati e di controllo sugli eletti (cui si può sempre minacciare la non ricandidatura). Ma proprio per questo motivo è considerato ideale dalla maggior parte dei costituzionalisti e dei commentatori politici e sarebbe molto gradito dai cittadini.
Per finire due considerazioni di carattere tecnico. Con la riduzione dei parlamentari diminuirà anche il numero dei componenti delle commissioni parlamentari: per assicurare un corretto svolgimento dei lavori parlamentari sarebbe opportuno (per non dire necessario) che ministri e sottosegretari venissero scelti esclusivamente all’esterno del Parlamento.
Per ridurre l’abuso del ricorso ai Decreti Legge sarebbe sufficiente richiamarsi alla Costituzione: l’art. 77 consente solo in straordinari casi di necessità e di urgenza che il Governo adotti provvedimenti provvisori con forza di legge (i cosiddetti Decreti Legge) e stabilisce che debba il giorno stesso presentarli alle Camere per la conversione in legge. E’ evidente che atti la cui elaborazione è durata settimane se non mesi (gli esempi più recenti sono il Decreto Dignità piuttosto che i Decreti Sicurezza) non avevano quei requisiti di urgenza e avrebbero dovuto avere invece la forma di un Disegno di Legge. Quando poi i Decreti Legge vengono approvati in Consiglio dei Ministri con la formula “salvo intese” l’incostituzionalità di tali provvedimenti è addirittura conclamata.